“C’era un paese che si reggeva sull’illecito Non che mancassero le
leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti
più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un
gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari
smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di
molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e
questi mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi
li aveva, in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in
cambio di favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori
ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in
qualche modo circolare e non privo d’una sua armonia.
[……]
Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva
d’applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di
potere e anche arresti di persone che avevano avuto fino a allora le
loro ragioni per considerarsi impunibili.
In quei casi il sentimento dominante, anziché la soddisfazione per la
rivincita della giustizia, era il sospetto che si trattasse d’un
regolamento di conti d’un centro di potere contro un altro centro di
potere.
Cosicché era difficile stabilire se le leggi fossero usabili ormai
soltanto come armi tattiche e strategiche nelle battaglie intestine tra
interessi illeciti, oppure se i tribunali per legittimare i loro compiti
istituzionali dovessero accreditare l’idea che anche loro erano dei
centri di potere e d’interessi illeciti come tutti gli altri.
[…..]
Così tutte le forme d’illecito, da quelle più sornione a quelle più
feroci si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e
compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare
il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi
con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente
felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre
numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo
attribuire: gli onesti.
Erano costoro onesti non per qualche speciale ragione (non potevano
richiamarsi a grandi principi, né patriottici né sociali né religiosi,
che non avevano più corso), erano onesti per abitudine mentale,
condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano farci
niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano
direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in
base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno col lavoro, la
stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione d’altre
persone. In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a
posto loro erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni
momento cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli
altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che trovano troppo
facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in malafede. Il potere
non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé (almeno
quel potere che interessava agli altri); non si facevano illusioni che
in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più
nascoste; in una società migliore non speravano perché sapevano che il
peggio è sempre più probabile.
Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era
pensare che così come in margine a tutte le società durante millenni
s’era perpetuata una contro società di malandrini, di tagliaborse, di
ladruncoli, di gabbamondo, una contro società che non aveva mai avuto
nessuna pretesa di diventare la società, ma solo di sopravvivere nelle
pieghe della società dominante e affermare il proprio modo d’esistere a
dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé (almeno
se vista non troppo da vicino) un’immagine libera e vitale, così la
contro società degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora
per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di
vivere la propria diversità, di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a
questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale
per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più
dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo
cos’è. ”
[Tratto da Romanzi e racconti – volume 3°, Racconti e apologhi sparsi, i Meridiani, Arnoldo
Mondadori editore. Pubblicato su la Repubblica, 15 marzo 1980].
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